sabato 22 ottobre 2011

Lo Stadio di Domiziano

La pianta dello Stadio di Domiziano è rimasta visibile nel tessuto urbanistico della moderna città di Roma nell’attuale Piazza Navona. I palazzi che la delimitano infatti sono stati costruiti sopra le antiche gradinate della cavea, i cui resti si possono vedere ancora nel settore del lato curvo dello stadio verso piazza di Tor Sanguigna (scoperti negli anni 1936-38 sotto il Palazzo dell’INA) e sotto la chiesa di S. Agnese.
L’imperatore Domiziano, della dinastia dei Flavi, decise di costruire un edificio dove potessero svolgersi le gare di atletica importate dalla Grecia e mal viste originariamente dai Romani, ma che entrarono a far parte del Certamen Capitolinum in onore di Giove insieme a gare equestri e musicali. Sappiamo dalle fonti che eccezionalmente venne usato anche per combattimenti tra gladiatori. La costruzione dello Stadio e dell’Odeon dovrebbe essere stata eseguita intorno all’86 d.C. in seguito ad un grande incendio che nell’80 d.C. distrusse gran parte degli edifici del Campo Marzio.
La lunghezza dello stadio è di circa 275 m., la larghezza di 106 m. e originariamente l’aspetto della struttura esterna doveva essere caratterizzato da una serie di doppie arcate con pilastri di travertino con semicolonne ioniche (per il primo ordine) e forse corinzie (per il secondo ordine). La tradizione cristiana vuole che proprio in un lupanare all’interno dei fornici dello stadio di Domiziano abbia subito il martirio S.Agnese, nel luogo dove si trova la chiesa a lei dedicata e sotto la quale possono vedersi notevoli resti della struttura antica.
Quattro ingressi, ciascuno per ogni lato, consentivano l’accesso sugli spalti divisi in due settori (maeniana) dove potevano trovare posto circa 30.000 spettatori. L’arena era libera da costruzioni, senza spina centrale o cancelli di partenza (carceres), come testimoniano le rappresentazioni sulle monete. Lo stadio fu successivamente oggetto di lavori di restauro sotto l’impero Alessandro Severo insieme alle vicine terme di Nerone.



Domiziano fece inoltre costruire l’Odeon nelle immediate vicinanze dello Stadio, a sud di questo. Si tratta di un edificio destinato agli spettacoli musicali la cui capienza è stimata intorno alle 10.000 unità. Anche in questo caso la forma dell’antico edificio è stata ricalcata dal Palazzo Massimo, la cui facciata su Corso Vittorio Emanuele segue la linea curva della cavea. Dell’Odeon rimane forse solo una alta colonna di marmo cipollino, probabilmente appartenente all’antica scena, che si trova al centro di Piazza dei Massimi, davanti alla facciata posteriore del Palazzo. Dalle fonti sappiamo che questo edificio venne restaurato sotto Traiano dal suo architetto Apollodoro di Damasco.

domenica 22 maggio 2011

Il Sepolcro degli Scipioni




Il sepolcro degli Scipioni è situato tra la via Latina e la via Appia, più vicino a quest’ultima, poco prima di Porta S. Sebastiano. Venne scoperto una prima volta nel 1616 e poi più di un secolo dopo nel 1780, quando i proprietari del terreno, i fratelli Sassi, scoprirono iscrizioni e sarcofagi in esso contenuti. Soltanto nel 1926-1928 però si completò lo scavo del sepolcro e si provvide al restauro della struttura, con la sistemazione di copie delle iscrizioni e dei sarcofagi che già si trovavano altrove.
Il Sepolcro venne scavato nel tufo all’inizio del III secolo a.C. per iniziativa di uno dei membri della famiglia degli Scipioni e fu utilizzato fino alla metà del II secolo a.C. quando si rese necessario un ampliamento che venne affiancato alla struttura originale.
La facciata del sepolcro si trovava sulla strada che univa la via Appia alla Latina e venne rifatta al momento della costruzione dell’ampliamento del sepolcro nel II secolo a.C., probabilmente per iniziativa di Scipione Emiliano. Oggi della facciata monumentale non rimane quasi niente, solo la parte inferiore, ma sappiamo che era formata da un basamento in blocchi di tufo con modanatura superiore a sostenere un prospetto con semicolonne e probabilmente tripartito per le tre statue che vi trovavano posto, e che raffiguravano Scipione Africano, il poeta Ennio e Scipione Emiliano. La parte inferiore della facciata presenta tracce di pittura con motivo a onde e scene di probabile soggetto militare, e in essa si aprivano le tre porte ad arco che davano accesso al sepolcro. Quella al centro dava accesso alla parte più antica del sepolcro, formato da un grande ambiente con quattro pilastri di tufo risparmiati durante lo scavo, con i sarcofagi disposti lungo le pareti.


In posizione centrale e in asse con l’ingresso centrale del sepolcro si trova il grande sarcofago (l’originale è ai Musei Vaticani) di Lucio Cornelio Scipione Barbato, console nel 298 a.C., con iscrizione del nome sul coperchio e altra iscrizione sulla cassa in versi saturni che ne ricorda le imprese. Ci sono poi altri sarcofagi di appartenenti alla famiglia che qui vennero deposti al momento della loro morte, come L. Cornelio Scipione, figlio di Barbato e console nel 259 a.C. e Publio Cornelio Scipione, forse il figlio dell’Africano (che fu sepolto no qui ma nella sua villa di Liternum), morto in giovane età. Seguono poi tutta una serie di altri membri della famiglia.
Il sepolcro venne parzialmente riutilizzato in età giulio-claudia dalla famiglia dei Corneli Lentuli, eredi dei Corneli Scipioni, di cui si sono trovavate le iscrizioni e i loculi per incinerazione.
In prossimità del sepolcro si trova anche un colombario ipogeo formato da un unico ambiente con due pilastri e alle pareti quattro file sovrapposte di nicchie per le urne cinerarie con pitture e stucchi.
Il sepolcro degli Scipioni ormai abbandonato, venne danneggiato nel III secolo d.C. dalla costruzione su di esso (in particolare sull’ampliamento del II secolo a.C.) di una casa a più piani le cui strutture sono ancora visibili.

 

Il Sacello di Venere Cloacina



 
I resti del sacello di Venere Cloacina si trovano nel Foro Romano a ridosso della Basilica Emilia lungo il percorso della via Sacra.
Rimane il basamento circolare di marmo che, come risulta dalle raffigurazioni sulle monete, originariamente sosteneva un piccolo recinto perimetrale al cui interno erano situate due statue di divinità: Cloacina e Venere, divinità che con il tempo vennero assimilate e fuse in un’unica dea conosciuta come Venere Cloacina. Cronologicamente la divinità più antica risulta essere Cloacina, il cui piccolo sacello, a cielo aperto, in questo punto del Foro Romano coincide con l’ingresso nell’area della Cloaca Massima. 

 Proprio in prossimità di questo piccolo recinto sacro la tradizione storica romana colloca episodi importanti delle origini della città come la purificazione degli eserciti dei romani e dei sabini dopo la guerra scatenata dal ratto delle sabine, e l’uccisione di Virginia per mano del padre che sottrae così la figlia dalle insidie del decemviro Appio Claudio.




Il Portico di Ottavia



Questo portico venne costruito da Augusto negli anni compresi tra il 33 e 23 a.C. sul luogo già occupato in precedenza dal Portico di Metello. La nuova struttura, che venne dedicata ad Ottavia sorella dell'imperatore, si trovava in prossimità del Circo Flaminio e vicino il Teatro di Marcello.
Il portico era costituito da un doppio colonnato che racchiudeva due templi, già inseriti nel portico di Metello, il tempio di Giove Statore e il tempio di Giunone Regina. Il Portico di Ottavia era inoltre caratterizzato dalla presenza di opere d'arte, anche queste ereditate dalla più antica struttura. Doveva trattarsi di un vero e proprio museo a cielo aperto in quanto qui era ospitato il gruppo con 34 statue equestri di bronzo, opera di Lisippo, raffiguranti Alessandro e i suoi ufficiali alla battaglia del Granico.


Era esposta qui inoltre la prima statua dedicata (verso il 100 a.C.) ad una donna a Roma, che rappresentava, in bronzo, Cornelia, la madre dei Gracchi. Sappiamo inoltre che sul lato di fondo del portico si apriva una grande esedra, la Curia Octavia, e all'interno del portico dovevano trovarsi anche la biblioteca latina e greca. Parte di questo portico si trova rappresentato nei frammenti della pianta marmorea severiana e doveva avere una pianta rettangolare di 119 x 132 m.
L'ingresso del portico di Ottavia si trovava sul lato meridionale, ed era costituito da un propileo, conservato, con due facciate identiche parallele sporgenti all'esterno ed all'interno del portico. Ogni facciata aveva quattro colonne corinzie scanalate tra due ante sormontate da architrave e timpano. Le facciate erano collegate fra loro sui lati da archi in laterizio con rivestimento marmoreo che si aprivano sul portico e formavano un grande ambiente con soffitto di legno.
Sono testimoniati lavori di restauro in età domizianea, dopo l'incendio dell'80 d.C. ed una quasi integrale ricostruzione da parte di Settimio Severo dopo l'incendio del 191 d.C. 


Oggi si può vedere la struttura del propileo di ingresso del portico che conserva le due colonne di sinistra della facciata esterna (le altre furono sostituite da un arco in laterizio probabilmente durante il medioevo in corrispondenza della chiesa di S. Angelo in Pescheria) l'architrave (con iscrizione che testimonia i lavori di restauro di Settimio Severo nel 203 d.C.) e il timpano. Si possono vedere ancora inoltre tre colonne con architrave e timpano della facciata interna, parti del tetto con tegole di marmo e antefisse con raffigurazioni di aquile, gli archi laterali con mensole di marmo e resti del rivestimento marmoreo. Accanto al propileo, sulla sinistra, si conservano inoltre alcune colonne dell'ala porticata meridionale, sono di granito e di cipollino alternate, mentre sul lato destro gli scavi hanno rimesso in luce la base su cui poggiava il colonnato, parte della pavimentazione e resti del più antico portico di Metello.


L'Arco di Druso



Il cd Arco di Druso si trova subito prima di Porta S. Sebastiano sull’Appia antica.
Sappiamo dalle fonti che un arco di trionfo di marmo e con trofei (padre dell’imperatore Claudio) venne eretto sull’Appia nel 9 a.C. in onore di Druso Maggiore. Alcune rappresentazioni del monumento su monete indicano che era ad un solo fornice e composto da quattro colonne a sostegno dell’attico su cui era una statua equestre con due trofei ai lati.

L’identificazione tra l’Arco di Druso e quello oggi visibile sulla via Appia si deve probabilmente al solo dato topografico. Infatti l’arco vicino a Porta S. Sebastiano è un fornice di acquedotto dell’aqua Antoniniana, monumentalizzato probabilmente perché in stretto rapporto con l’ingresso alla città. Sui lati dell’arco è infatti possibile vedere lo speco, all’altezza dell’attico, entro il quale correva l’acqua che serviva per alimentare le Terme di Caracalla e gli attacchi di altri fornici dell’acquedotto che seguivano e precedevano quello rimasto.
La decorazione marmorea che nobilitò la struttura del condotto si può ancora osservare ed è formata da due colonne poggianti su un’alta base con capitelli compositi a sostegno di un attico con timpano triangolare.

sabato 14 maggio 2011

L'Area Sacra di Largo Argentina

L'area sacra di Largo Argentina venne alla luce durante i lavori di demolizione degli edifici compresi tra l'attuale Corso Vittorio Emanuele e via Florida negli anni tra il 1926 e il 1928. Quattro templi repubblicani caratterizzano quest'area e fin dal momento della loro scoperta vennero denominati con le prima quattro lettere dell'alfabeto, da nord a sud rispettivamente A, B, C, e D, e furono costruiti in un arco di tempo che va dall'inizio del III secolo a.C. alla fine del II secolo a.C. Tre di questi furono costruiti sull'originario piano di campagna del Campo Marzio (templi C, A e D) e tutti avevano un'area esterna antistante leggermente sopraelevata dove sorgevano gli altari per il sacrificio. Nella seconda metà del II secolo a.C. questi tre templi vennero uniti all'interno di un'area comune dalla creazione di una pavimentazione in tufo che rialzò il livello del terreno di 1,40 m. rispetto al piano di campagna originario. La datazione di questa pavimentazione in tufo è indicata dal fatto che essa andò a ricoprire e sigillare l'altare davanti al tempio C, altare non originario ma probabilmente un rifacimento, su cui compare il nome di Aulo Postumio Albino console nel 155 a.C. È chiaro che la nuova pavimentazione sia stata fatta dopo tale data e forse in seguito all'incendio del 111 a.C. che devastò gran parte del Campo Marzio. Con la creazione del pavimento in tufo, che è ancora possibile vedere in vari punti dell'area archeologica, i podi dei primi tre templi vennero tagliati a metà e adattati alla nuova sistemazione. Subito dopo questa trasformazione, nello spazio compreso tra il tempio C e il tempio A venne costruito il tempio B che, come si può vedere ancora agevolmente, poggia sul pavimento in tufo e deve dunque essere cronologicamente posteriore ad esso e riconducibile alla fine del II secolo a.C. Con la creazione del quarto tempio avvenne la definitiva unificazione dell'area sacra che dovette inoltre essere circondata da un portico. Il pavimento in lastre di travertino che è ancora oggi possibile vedere all'interno dell'area venne realizzato sopra la pavimentazione in tufo nella prima età imperiale ad opera di Domiziano, il quale restaurò anche gran parte dei quattro templi probabilmente in seguito all'incendio dell'80 d.C. Un ulteriore livello di pavimentazione sempre in travertino, e di cui non rimane oggi nessuna traccia, venne successivamente costruita al di sopra del pavimento domizianeo in età tardo-antica.
Il primo ad essere stato costruito è il tempio C. Presenta un podio in opera quadrata di tufo alto 4,25 m. con modanatura di tipo arcaico e nel complesso misura 30,5 m.di lunghezza per 17,1 m. di larghezza. Sulla fronte dovevano essere quattro colonne, cinque sui lati. La cella, in opera laterizia, aveva la pavimentazione in mosaico bianco con riquadratura nera, e documenta il restauro di età domizianea, così come le basi delle colonne in travertino. Il podio è preceduto da una scalinata che in origine doveva avere venti gradini, sostituiti poi dai cinque gradini in travertino in relazione con la nuova pavimentazione domizianea. Davanti al tempio al di sotto della pavimentazione in tufo si conserva l'altare con iscrizione dove si trova il nome di Aulo Postumio Albino console del 155 a.C. Questo tempio viene ormai comunemente identificato con il tempio di Feronia, divinità italica la cui introduzione a Roma avvenne nel III secolo a.C. probabilmente ad opera di M. Curio Dentato che potrebbe anche aver fatto costruire il tempio a questa divinità dopo il 290 a.C., cioè all'indomani la sua vittoria sui Sabini e la conquista del loro territorio.


Il secondo edificio in ordine cronologico ad essere costruito è il tempio A. Può essere datato alla metà del III secolo a.C. ed è il tempio che subì nel corsi dei secoli le più radicali trasformazioni. Originariamente doveva essere prostilo ed esastilo (cioè con sei colonne sulla fronte) e un primo intervento di modifica lo subì verso la fine del II secolo a.C. quando venne innalzato e ingrandito il podio, che inglobò quello più piccolo precedente. Lo stato attuale è forse dovuto ad una sistemazione appartenente al periodo di Pompeo o di Agrippa e si presenta come un tempio periptero, con colonne di tufo e capitelli in travertino, mentre le due colonne in travertino oggi visibili sono dovute al restauro successivo di età domizianea. Al di sotto del pavimento in travertino nell'area antistante si conservano i nuclei di due altari, uno sull'altro, relative alle fasi più antiche del tempio. Questo edificio venne occupato nell'VIII secolo d.C. dalla chiesa di S.Nicola de Calcarariis o de' Cesarini di cui rimangono testimonianze negli affreschi delle due absidi costruite all'interno dell'antica cella, in un cippo-altare databile al XII secolo e nella cripta semianulare. L'adattamento a chiesa ha permesso comunque la conservazione dei colonnati laterali mentre ha invece compromesso tutta l'area della cella e del pronao dell'antico tempio. Sembra comunque comunemente accettata l'identificazione con il tempio di Giuturna costruito da Q. Lutatio Catulo nel 241 a.C. dopo la sua vittoria nella battaglia delle Isole Egadi contro i Cartaginesi durante la prima guerra punica. A sostegno di questa proposta identificativa dell'edificio sembra essere una notizia contenuta nei "Fasti" di Ovidio, dove il tempio di Giutura è indicato vicino allo sbocco dell'aqua Virgo e cioè vicino alle Terme di Agrippa che sappiamo essere a nord dell'area sacra di Largo Argentina. Il tempio A è sicuramente il più vicino ad esse e per questo motivo sembra, ad oggi, essere quello che meglio risponde all'identificazione con il santuario di Giuturna.
Segue cronologicamente il tempio D, l'edificio più grande tra quelli di Largo Argentina che è anche quello più a sud dell'area e che rimane per gran parte ancora al di sotto di via Florida. Questo tempio viene datato all'inizio del II secolo a.C. e doveva essere uno pseudoperiptero esastilo, almeno nella sua ultima sistemazione. Il podio appare rivestito di lastre di travertino che in origine dovevano essere stuccate, mentre la cella, che occupa quasi tutta l'area del podio ed è riferibile ad età domizianea, è in opera laterizia e doveva avere come decorazione riquadri di stucco sia all'interno sia all'esterno. La scalinata in travertino attualmente visibile venne costruita sopra dei gradini precedenti in opera cementizia riconducibili alla originaria pavimentazione dell'area. Il tempio D di Largo Argentina viene attualmente identificato con il tempio dei Lares Permarini, che sappiamo essere stato dedicato nel 179 a.C. dal censore M. Emilio Lepido. Dai Fasti Prenestini sappiamo inoltre che questo tempio sorgeva all'interno della porticus Minucia che si trovava nel Campo Marzio. Questa notizia unita ad un frammento della Forma Urbis, la pianta marmorea di età severiana, in cui compare il nome di questo portico con al centro un tempio ha portato alcuni studiosi a identificare il tempio dei Lares Permarini con i resti del tempio di via delle Botteghe Oscure, che dovrebbe essere effettivamente il tempio rappresentato nel frammento dell'antica pianta di Roma. Ma in base ai dati archeologici relativi alla zona di via delle Botteghe Oscure sembra che tale tempio sia da identificare piuttosto con il tempio delle Ninfe e il portico circostante con la porticus Minucia Frumentaria.
Ultimo in ordine di tempo è il tempio B, il secondo da nord, che si differenzia dagli altri templi per la sua pianta circolare. Come indicato in precedenza questo edificio sacro venne eretto soltanto verso la fine del II secolo a.C. sulla pavimentazione in tufo della seconda metà del II secolo a.C. Il tempio venne originariamente costruito con alto podio (h. 2,5 m.) in blocchi di tufo preceduto da una gradinata anch'essa in tufo, mentre sopra il podio era un cella cilindrica circondata da colonne (ne rimangono 6) in tufo con capitelli e basi in travertino. In un secondo momento la cella venne demolita e vennero murati gli intercolumni della peristasi con muratura laterizia che lasciava però sporgere le colonne sia verso l'interno che verso l'esterno a modo di semicolonne. La pavimentazione della cella così ingrandita venne rifatta con un mosaico pavimentale, e venne ulteriormente ingrandito il podio. Un ultimo intervento edilizio si deve a Domiziano che coprì definitivamente verso l'esterno le colonne, che rimasero visibili soltanto all'interno della cella, ricoprì l'originaria scalinata con una nuova in travertino rifacendo allo stesso tempo una nuova ara (di cui rimane il nucleo) nella parte antistante il tempio e interrando in maniera parziale il podio che venne decorato con una cornice di base in travertino. Il tempio B di Largo Argentina è l'unico che sembra potersi identificare con certezza con il tempio della Fortuna Huiusce Diei (la "Fortuna di questo giorno") fondato da Q. Lutatio Catulo console nel 101 a.C. insieme a Mario, dopo la vittoria conseguita il 30 giugno di quell'anno nella battaglia di Vercelli contro i Cimbri. La sicurezza di tale identificazione viene dal ritrovamento nell'area compresa tra il tempio B e C dei resti in marmo bianco di Paros di un acrolito (statua con parti nude in marmo e parti vestite in metallo), consistenti in una testa colossale femminile alta 1,50 m. insieme con un braccio e due piedi. Si tratta dunque della statua di culto del tempio B che dagli storici dell'arte antica è stata considerata come uno dei rari esempi di opera d'arte ellenistica elaborata per un monumento romano ed è stata datata intorno agli anni tra il 100 e il 95 a.C. Suggestiva l'ipotesi che vedrebbe in Scopas minore, artista che sappiamo operativo in quegli anni, l'artefice di questa colossale scultura, i cui resti sono conservati nel Palazzo dei Conservatori dei Musei Capitolini (ora spostati nella sede delle Centrale Montemartini).


Altri resti visibili al'interno dell'area sacra di Largo Argentina sono parte del portico che doveva cingere i quattro templi (la porticus Minucia Vetus) conservato sul lato nord in prossimità del tempio A, portico che era addossato ad una analoga struttura più grande conosciuta con il nome di Hecatistylum, ossia il portico dalle cento colonne, che si trova sotto il limite settentrionale dell'area archeologica. Dietro il tempio A si trovano i resti di una monumentale latrina pubblica (forica) costruita in età imperiale, ed una analoga struttura troviamo anche dietro il tempio C. Tra queste due latrine e proprio alle spalle del tempio rotondo B si trovano i resti di un grande podio in opera quadrata di tufo, appartenenti alla Curia di Pompeo, luogo famoso per essere stato lo scenario in cui il 15 marzo del 44.C. venne ucciso Giulio Cesare.



mercoledì 23 febbraio 2011

Horologium


 
Il grande obelisco che si trova davanti al palazzo di Montecitorio fu portato a Roma da Augusto nel 10 a.C. da Eliopoli in Egitto, e venne innalzato nel Campo Marzio come maestoso gnomone di un monumentale orologio solare, per la cui realizzazione, eseguita a cura di Mecenate, fu richiesta la collaborazione di matematici e astronomi di Alessandria d'Egitto.
La scoperta dell'obelisco segnato dai geroglifici, che ne indicano l'originaria appartenenza al faraone Psammetico II, avvenne nel 1748 sotto una casa al civico 3 di piazza del Parlamento (un'iscrizione ricorda il ritrovamento). Qualche tempo dopo, nel 1792, l'obelisco fu restaurato con pezzi della colonna di granito di Antonino Pio (scoperta nel 1703 in via degli Uffici del Vicario) e rialzato nella sua sede attuale, non lontano dal suo posto originario.
Scavi recenti in via del Campo Marzio hanno permesso di portare alla luce una parte dell' Horologium, a circa 6 metri di profondità rispetto al piano attuale, composta da pavimento in grandi lastre di travertino su cui sono posizionate indicazioni in lingua greca in grandi lettere di bronzo.
Si tratta di un restauro riferibile a età domizianea avvenuto in seguito al grande incendio dell'80 d.C. Così possiamo ricostruire il funzionamento dell'Horologium solare, dove l'obelisco-gnomone proiettava la sua ombra su un enorme quadrante, che si estendeva da S. Lorenzo in Lucina fino alla piazza del Parlamento, e da via della Lupa a via in Lucina e costituito da lastre di travertino, nel quale erano inserite linee in bronzo dorato per dividere i vari settori temporali e scritte in greco che davano indicazioni cronologiche.
Oltre al ritrovamento dell'obelisco nel corso dei secoli furono trovati tratti del quadrante, come nel 1463 proprio sotto la chiesa di S. Lorenzo in Lucina dove si trovò parte del pavimento con linee bronzee e durante il pontificato di Sisto IV con tratti di quadrante con mosaici rappresentanti figure dei venti e scritte che indicavano i loro nomi (Boreas, Aquilo, ecc.).
Sappiamo da Plinio che l'orologio, forse in seguito ad un terremoto che spostò leggermente l'obelisco, non funzionava bene, così fu restaurato da Domiziano. Dalle fonti inoltre sappiamo anche che il 23 settembre, data di nascita di Augusto, l'ombra dell'obelisco cadeva esattamente sulla vicina Ara Pacis.

giovedì 27 gennaio 2011

Mura Serviane



Secondo la tradizione romana il re Servio Tullio nel VI secolo a.C. avrebbe costruito una poderosa cinta muraria per la difesa di roma, città in espansione ormai ben fuori dal primo muro di Romolo creato per la città appena nata sul Palatino. Rimangono ancora molti tratti delle mura Serviane, e lo studio di queste strutture superstiti ha portato l’archeologia ad una datazione differente da quella della tradizione, portando queste mura al IV secolo a.C. Ma ovviamente le mura giunte fino ai nostri giorni possono benissimo testimoniare un rifacimento o una ricostruzione con blocchi in tufo di Grotta Oscura di una cinta muraria più antica che doveva essere eretta con blocchi di cappellaccio. Infatti tratti del muro di VI secolo a.C. sono state ritrovate sul Viminale presso le Terme di Diocleziano e sull’Aventino sotto la chiesa di S.Sabina, con parti di restauro di IV secolo a.C. con blocchi di tufo di Grotta Oscura.
La cinta di IV secolo a.C. venne costruita dopo la famosa invasione gallica del 390 a.C. e più precisamente sappiamo che la sua costruzione venne iniziata nel 378 a.C. e proseguita con diversi cantieri che lavoravano contemporaneamente nelle varie zone della città. La tecnica costruttiva però è ovunque la stessa, con blocchi di tufo alternati di testa e di taglio a comporre un muro dall’altezza di circa 10 m., con uno spessore che arriva fino ai 4 m. e formando un perimetro di 11 km. racchiudendo una superficie di 426 ettari. Di questa cinta il tratto più fortificato (circa 1300 m.) era quello composto dall’Agger, che doveva difendere il lato più debole della città, cioè il versante del Quirinale-Viminale-Esquilino. Questo Agger era costituito da un grandioso fossato, profondo più di 10 m., con retrostante terrapieno contenuto da un muro alto 10 m. Nel corso dei secoli le mura vennero più volte restaurate, almeno fino alle guerre tra Mario e Silla nella prima metà del I secolo a.C.
Nelle Mura Serviane si aprivano diverse porte per l’ingresso e l’uscita dalla città. Partendo dal Celio troviamo la Porta Querquetulana (che doveva aprirsi nell’area vicino alla chiesa dei SS. Quattro Coronati), quindi la Porta Celimontana (ancora visibile nella sua trasformazione augustea in Arco di Dolabella), segue la Porta Capena vicino il lato curvo del Circo Massimo) da dove usciva la via Appia, poi la Porta Naevia, La Porta Rauduscolana e la Porta Lavernalis nel tratto di mura che cingeva l’Aventino, la Porta Trigemina (vicino S. Maria in Cosmedin), la Porta Flumentana (nell’area del Tempio di Portuno), la Porta Carmentalis (nell’area di S. Omobono), quindi nel tratto del Campidoglio la Porta Catularia e la Porta Fontinalis (dove è il Museo del Risorgimento), la Porta Sanqualis (Largo Magnanapoli), la Porta Salutaris e la Porta Quirinalis sul Quirinale, la Porta Collina (ex Ministero delle Finanze), la Porta Viminalis (Piazza dei Cinquecento) sul Viminale nel tratto dell’Agger, e infine la Porta Esquilina (trasformata poi nell’Arco di Gallieno in via Carlo Alberto) sull’Esquilino.
Resti delle cd Mura Serviane possono vedersi in varie parti della città: un poderoso tratto di mura si trova in viale Aventino (con un arco per balista), altri resti in via di S. Anselmo e sotto S. Sabina; blocchi delle mura sono visibili sul Campidoglio e sul Quirinale alla Salita del Grillo e in Largo Magnanapoli, un arco con conci di tufo è visibile nel Palazzo Antonelli; tratti di mura sono inoltre in via Salandra e via Carducci e ancora in Piazza dei Cinquecento e Piazza Manfredo Fanti; infine altri resti possono vedersi vicino l’Auditorium di Mecenate in Piazza Leopardi.


mercoledì 12 gennaio 2011

Ara di Marte



Un antico santuario di Marte diede il nome alla vasta pianura nel settore a nord-ovest di Roma subito fuori le mura della città, il Campo Marzio. Connesso con le attività militari che si svolgevano in questa zona, il santuario, certamente già presente in età repubblicana, era costituito da un altare dedicato al dio della guerra.
Sappiamo dalle fonti antiche (Livio 35, 10, 12) che costituiva quasi un unico complesso strutturale con i Saepta e la Villa Publica e che dal 193 a.C. era collegato alla Porta Fontinalis delle Mura Serviane da un portico. Da questi dati è probabile che l’ara di Marte dovesse trovarsi a non molta distanza dalle mura e più precisamente in prossimità della zona compresa tra le odierne piazza Venezia e piazza del Collegio Romano, luogo oggi occupato dal Palazzo Doria-Pamphili.
Nel 1925 vennero scoperti sotto via del Plebiscito i resti di un edificio monumentale, probabilmente un recinto, che doveva continuare in direzione di via della Gatta anche sotto Palazzo Doria-Pamphili. Si tratta di un muro perimetrale, con nicchie per statue, di una lunghezza di circa 60 m. In base ai dati desunti dalle fonti si pensa che al centro di questo recinto possa trovarsi l’Ara Martis, l’altare di Marte che diede il nome al Campo Marzio.